Come mai di questi tempi tutte le ragazzine erano vestite come signore e le loro madri vestite come monellacce? (Tom Wolfe, Il falò delle vanità)

Versione integrale dell’articolo pubblicato sul n. 119 della rivista Leggendaria
di Mario Simoncini

Rivedo Little Miss Sunshine, un film americano del 2006 presentato al Sundance Film Festival e accolto, anche in Italia, da un grande successo di critica e di pubblico. Narra, come è noto, le vicende di una squinternata famiglia di Albuquerque, New Mexico, la famiglia Hoover, che parte alla volta della California su uno scassato pulmino Volkswagen per accompagnare la bambina Olive che parteciperà al concorso di bellezza per l’elezione, appunto, di Miss Sunshine. Siamo su un terreno ampiamente frequentato dal cinema americano, sia dal cinema delle majors hollywoodiane che dal cinema cosiddetto indipendente, quello delle dinamiche familiari, di volta in volta oggetto di celebrazioni compiaciute o di sguardi nostalgici o di sbeffeggiamenti ironici. Qui però con tutta evidenza, anche senza spingere a fondo sul pedale della cattiveria, il sogno americano è pesantemente deragliato ribaltandosi fino a trasformarsi in un incubo a occhi aperti: la famiglia Hoover (Hoover – con sottile déplacement ironico – come il leggendario capo dell’FBI, a lungo agente deputato all’incanalamento e al  controllo delle vite e dei valori americani in nome del patriottismo e dell’anticomunismo)  è una famiglia di perdenti. Lo è – nonostante inciti di continuo i familiari a essere vincenti – il padre, che vediamo all’inizio del film mentre si produce in una conferenza sui nove passi per ottenere il successo alla presenza di un pubblico sparuto di studenti annoiati, lo è la madre, che pure si affanna a garantire alla famiglia un minimo di stabilità emotiva, lo sono per varie ragioni gli altri componenti del piccolo nucleo: li accomuna il desiderio di rivalsa che in varia misura, più o meno consapevolmente, proiettano sulla piccola Olive, sobbarcandosi il faticoso viaggio su quel pulmino che si staglia come simbolo crudele del loro fallimento. Una coppia di genitori privi di ascendente sui figli: il maschio, infatti, trascina le sue giornate chiuso in un bozzolo fatto di mutismo, la bambina vive come unica autentica figura genitoriale il nonno, vecchio tossicomane sboccato e donnaiolo e nemico del politically correct. E sarà proprio alla morte di questi che il resto della famiglia, raccogliendone l’eredità, riuscirà a sottrarsi a quel micidiale impasto di ipocrisia e di illusorio autocompiacimento e, raggiunta finalmente la sede del concorso, ad affiancare Olive in una performance trasgressiva che susciterà scandalo tra le altre famiglie e permetterà però loro di ricompattarsi e ritrovare complicità e armonia. In un film riuscito solo parzialmente ma sociologicamente assai importante, è indimenticabile l’intera sequenza del concorso in California: là bambine vestite e truccate come le madri si producono in esibizioni ammiccanti, all’insegna di una femminilità ipertrofica attenta, nel contempo, a non debordare dai confini di un innocuo perbenismo. Sono piccole donne che fanno già i conti con lo sguardo maschile, e gli si offrono mettendo in scena il repertorio di una sessualità tutto sommato morbida, rassicurante, poco minacciosa. Una sorta di tutto femminile, di tipo ideale per usare le parole di Otto Weininger, che nel suo Sesso e carattere (1)  con ingenuo e presuntuoso ardore positivista si illudeva di trovare leggi eternamente valide per definire il maschile e il femminile, atteggiandosi a scienziato che si avvale di numeri e di formule matematiche. (2)

Materia destinata a procreare, le donne, in obbedienza a dettami patriarcali che attraverso la maternità ne controllano e sterilizzano il desiderio e in una visione che ancora oggi, a distanza di un secolo dagli scritti di Weininger, permea di sé l’immaginario maschile, che per di più le penalizza quando non sono in grado di adempiere a questa funzione naturale. Mi viene in mente un ricordo: qualche anno fa chiesi al mio vice, Roberto (nome fittizio), che cosa avesse a suo parere Giulia (altro nome fittizio), un’impiegata che da un po’ di tempo appariva nervosa e dava risposte che lasciavano intravedere un senso di irritazione e insofferenza. “Sai” mi fece Roberto “credo che abbia problemi in famiglia….e poi c’è il fatto che non ha figli….una donna che non può avere figli si sente menomata, non realizzata….” E non è che Roberto fosse un tipo becero, tutt’altro, si limitava a fare suo un sentire ampiamente condiviso.

Ma nella realtà di oggi, una realtà che fa i conti con le macerie del patriarcato, cosa fanno, come si arrabattano uomini e donne, padri e madri alle prese col compito di essere genitori, e dunque dispensatori di amore, protezione, conforto, speranze, consigli, regole, divieti?

Ho ipotizzato e scritto in un mio saggio che gli uomini vivono la trappola di un’alternativa che logora e immiserisce le relazioni, quella tra la riproposizione di un potere patriarcale, anacronistico e arrogante, e il cieco annaspare in un’eterna adolescenza: alternativa, a ben vedere, più apparente che reale, in quanto fondata sulla medesima fragilità e incapacità di imboccare con decisione la strada del cambiamento di sé. (3)

Le donne, da parte loro, sono state e sono ancora, in parte, pesantemente condizionate dal patriarcato; come ci insegna Bourdieu (4), sono state e sono alle prese col dominio simbolico maschile, costrette in una relazione di sostanziale complicità col potere, la complicità dei dominati con i dominanti, pur esercitando il loro enorme potere di vita e di morte, legato al ruolo di depositarie della riproduzione. In quanto madri avrebbero assunto un ruolo di mediazione, di amministratrici della norma paterna, custodi del Nome del Padre, per stare alle parole di Massimo Recalcati (5), che però – mi sembra il punto di caduta del suo ragionamento – finisce col condannarle a un ruolo del tutto marginale, limitato a trasmettere eredità che appaiono esclusivamente patrilineari.

Ma le donne oggi? oggi che l’eredità dei padri è stata dissipata, oggi che rimane ben poco da custodire, oggi che l’ordine sociale prodotto dall’uomo mostra serie incrinature, oggi che viviamo la crisi del patriarcato nelle nostre società occidentali, come si destreggiano tra le sue macerie?

Non c’è dubbio, le statistiche ce lo confermano, che esse continuano ad accollarsi la parte preponderante del lavoro di cura, verso figli, mariti, fidanzati, genitori e suoceri, si occupano della casa, fanno quadrare a volte bilanci familiari sempre più magri, ma la crisi di identità che sta attraversando i ruoli genitoriali non le vede del tutto immuni (e peraltro sono sempre più, almeno in Italia, quelle che rinunciano a fare figli, per problemi economici e/o carenze di servizi e/o relazioni affettive inadeguate). Nella migliore delle ipotesi, dunque, le donne continuano a bilanciare l’esito fallimentare di padri assenti, ne coprono le carenze affettive e relazionali, e tuttavia non mancano quelle che, come gli uomini, non riescono a rinegoziare dispositivi educativi che agiscano in direzione del cambiamento e della crescita, condannando se stesse e i figli a un’eterna infanzia, scevra da limiti e regole. Il bambino, quello reale in carne e ossa, assieme al bambino che padri e madri coltivano narcisisticamente dentro di sé, assume così le vesti del protagonista assoluto, sempre al centro della scena, viziato e prepotente, pronto a piagnucolare (o a mettere il muso se adolescente) sicuro così di ottenere tutto quello che chiede. Basta, per rendersene conto, anche se l’esempio può apparire banale, andare in un ristorante, di quelli a prezzi accessibili, frequentati da famiglie più o meno allargate: là i pupi di casa la fanno da padroni, al centro dell’attenzione dei parenti compiaciuti, battendo i pugni sul tavolo o scorrazzando per il locale, senza alcun freno o limite, con la complicità di tutti gli altri secondo la logica che tutto gli è permesso. “Cosa vuole, sono bambini!”  E per esorcizzare eventualmente il senso di colpa per il poco tempo passato con i figli o per la sua scarsa qualità, basta regalargli l’ultimo modello di smartphone in commercio – che si abitueranno a compulsare giorno e notte –  per poterli chiamare ossessivamente, anche quando sono a scuola, e illudersi così di esercitare, almeno a distanza, una funzione di guida e di controllo. Un rapporto malato, di cui, oltre ai figli, fanno le spese quelle figure che dovrebbero invece assumere il compito di collaborare con i genitori in funzione della crescita: insegnanti in primo luogo, svalutati come figure sociali (anche per la loro modesta retribuzione economica), pesantemente criticati e a volte perfino aggrediti se si permettono di esprimere voti o giudizi negativi o anche non del tutto positivi. E sono cronache frequenti, se ci spostiamo in ambito sportivo, quelle di certe partite di calcio giovanile durante le quali torme di genitori assatanati insultano l’arbitro o gli avversari o accendono risse tra loro, tutto perché, anche qui, il pupo è stato colpito in un’azione di gioco o non viene valorizzato a sufficienza dall’allenatore. Genitori assatanati, avanguardia di un esercito che cerca nei figli compenso e rivalsa verso le proprie frustrazioni e i propri fallimenti, come i genitori di Edna Louise in Sorella mio unico amore di Joyce Carol Oates o come il personaggio di Maddalena Cecconi interpretato da Anna Magnani in Bellissima di Luchino Visconti. E in definitiva, come sembra così tragicamente difficile  trovare modelli educativi che senza ricalcare il passato, quando le sopracciglia alzate dei padri bastavano ad atterrire intere generazioni di bambini, evitino lo svaccamento di oggi!

In un recente scritto, Senza adulti, Gustavo Zagrebelsky ha descritto acutamente la sindrome dell’eterna giovinezza che attanaglia molti, non solo genitori, ne paralizza la crescita e di fatto ne ha cancellato il passaggio alla maturità:

Se ci guardiamo intorno, colpisce il fatto che, nella percezione diffusa, le tre età della vita (giovinezza, maturità e vecchiaia, n.d.r.) si siano ridotte a due (…) Guardiamoci attorno. Dove sono gli uomini e le donne adulte, coloro che hanno lasciato alle spalle i turbamenti, le contraddizioni, le fragilità, gli stili di vita, gli abbigliamenti, le mode, le cure del corpo, i modi di fare, persino il linguaggio della giovinezza e, d’altra parte, non sono assillati dal pensiero di una fine che si avvicina senza che le si possa sfuggire? Dov’è finito il tempo della maturità, il tempo in cui si affronta il presente per quello che è, guardandolo in faccia senza timore? Ne ha preso il posto una sfacciata, fasulla, fittiziamente illimitata giovinezza, prolungata con trattamenti, sostanze, cure, diete, infiltrazioni e chirurgie; madri che vogliono essere e apparire come le figlie e come loro si atteggiano, spesso ridicolmente. Lo stesso per i padri, che rinunciano a se stessi per mimetizzarsi nella “cultura giovanile” dei figli. L’eterna giovinezza, la promessa di patti con il diavolo di fantasiosi elisir, è diventata un’aspirazione che la pubblicità commerciale alimenta per i suoi fini. (6)

E nel suo Il corpo delle donne Lorella Zanardo racconta di una conoscente incontrata a un funerale, una donna sottopostasi a un trattamento di chirurgia estetica, legata alla proposta di un modello artificiale di femminilità, al bisogno di accettazione, al rifiuto di invecchiare, al timore di non corrispondere al desiderio maschile:

(…)  la sua faccia è una gabbia. Dolore, smarrimento, paura della solitudine lottano dentro di lei, e il volto immobile, pietrificato da una chirurgia impietosa, imprigiona tutto quanto. E’ un burqa di carne, una maschera definitiva che incancrenisce i sentimenti all’interno del corpo, impedendone l’espressione. (7)

Mi pare sia all’opera un narcisismo esasperato, che propone a getto continuo ipertrofiche manifestazioni dell’io che invadono occhi e orecchie imponendosi con aggressività, calpestando ogni residuo pudore come un torrente in piena che scende a valle travolgendo ogni argine. Chi non si è mai trovato a condividere, per strada o in uno scompartimento del treno o in un qualsiasi locale pubblico, squarci di vite degli altri (ogni riferimento al film ambientato nell’ex DDR è del tutto casuale) urlate al telefonino? degli altri che ti informano che stasera a tavola c’è la carbonara, che Rossella ha mollato il fidanzato, che la nonna arriva domani alle undici, che l’idraulico non è venuto o che l’avvocato Rossi ha mandato una parcella troppo salata? Anche i tatuaggi, da elemento decorativo, si vanno trasformando in capitoli di una narrazione fatta di nomi, di frasi, di citazioni, che riepilogano il senso e le circostanze di vite vissute e offerte ai nostri occhi. La TV amplifica questi meccanismi: basti pensare alle trasmissioni di Maria De Filippi, o ad Affari tuoi dove i concorrenti ci narrano le loro esistenze, attraversate da eventi lieti e meno lieti, ci confidano le loro preoccupazioni economiche (“se vinco estinguo il mutuo”), ci informano su nomi e date di nascita – agitati come talismani – di genitori, figli, fratelli, sorelle, nonni, zii, cugini e cognati. I social poi ci mettono al corrente di come questo o quell’amico o conoscente o perfetto sconosciuto ha passato la serata o dove e con chi si appresta a trascorrere il week end. E infine, fateci caso, sul lunotto posteriore delle automobili, dove una volta si leggeva Bebé a bordo, ora si legge che a bordo c’è Paolo o Luciana o Christian o Jessica, che tutti sappiano il nome del pupo e gli si possa così fin da subito assicurare la sua piccola fetta di notorietà.

Qualche tempo fa girava per le varie reti televisive uno spot pubblicitario di una nota casa automobilistica: interno dell’automobile, una madre molto giovanile, in tiro, al posto di guida, che ha appena preso e fatto salire a bordo la figlia adolescente, all’uscita della scuola. Quest’ultima, nel sistemarsi sul sedile del passeggero, mostra per caso un piccolo tatuaggio, non troppo appariscente, provocando la reazione della madre. “Che cos’è questo tatuaggio?” chiede questa alla figlia con fare apparentemente scandalizzato; a questo punto saremmo indotti a credere alla “naturale” reazione di una donna adulta, non bigotta (il suo aspetto, il suo abbigliamento e il suo modo di fare lo escludono), ma forse giustamente perplessa per un’iniziativa della figlia di cui era all’oscuro e che giudica prematura o addirittura fuori luogo, magari nel timore che la ragazza si avvii a un destino di tamarra. Niente di tutto questo, la donna si gira verso la figlia e scoprendo la schiena e mostrando un tatuaggio molto più grande ed elaborato: “Questo sì che è un tatuaggio!” finisce con l’esclamare con aria di trionfo. Dopo una iniziale reazione di sconcerto della figlia, entrambe sorridono contente, come due complici che hanno ormai abbattuto ogni confine tra loro, o come due competitrici che sono riuscite a negoziare i termini della loro sfida. Una sfida vinta dalla madre, una sconfitta pienamente accettata dalla figlia, un contesto, comunque, di grande fluidità, in cui si mescolano insieme età, corpi, atteggiamenti, stili di vita, in cui la madre è come la figlia e la figlia è come la madre. Geniale nella sua icasticità, lo spot sintetizza con estrema efficacia l’accorata lamentazione di Gustavo Zagrebelsky, e certifica in modo definitivo il tramonto dell’età adulta o quantomeno ne ridefinisce le regole, i codici, i linguaggi. L’auto pubblicizzata è una piccola auto sportiva, e dunque lo spot incide su un immaginario che si nutre di sedute in palestra, di zumba, di cardiofitness, rivolto a un pubblico che vuole essere o si illude di essere giovanile, cool, scattante, tonico, modaiolo, grintoso proprio come l’utilitaria pubblicizzata. Non sfuggirà poi una sottile forma di sessismo nel puntare a un target prevalentemente femminile: un uomo che possegga un’auto del genere, infatti, a meno che non sia un giovane neopatentato, sarebbe considerato più o meno uno sfigato, al contrario di una donna, che di norma guadagna meno di un uomo, come è giusto che sia, o magari ne dipende economicamente, e oltretutto è considerata meno abile alla guida e dunque poco adatta a vetture di maggiore cilindrata. E oltretutto, chi va a prendere i figli a scuola se non la mamma?

Un recente film a mio parere sottovalutato, Adaline, ribalta invece il mito dell’eterna giovinezza e ce ne offre il rovescio: dietro l’apparente felicità di un corpo che non invecchia, c’è il dolore e lo smarrimento di chi – la protagonista Adaline, appunto, che per uno strano accidente rimane giovane per decenni – vede attorno a sé la vita che fluttua e ribolle, le generazioni che si alternano, le mode che cambiano, insomma tutto il mondo che si trasforma attorno a lei col suo carico di guerre, lutti, disperazioni ma anche di gioie e di speranze, ed è condannata ad assistere a tutto questo da spettatrice passiva e disillusa, a negarsi amori, affetti, amicizie, costretta a cambiare periodicamente nome e identità, a nascondersi alle autorità, a scoprire il disagio di vivere braccata come una criminale. Unica testimone dei suoi affanni la figlia, che vediamo crescere negli anni e ritroviamo ormai anziana alla fine del film. Hollywood però reclama il lieto fine, e così Adaline, per un altro strano accidente, tornerà ad essere incanalata nel normale corso dell’esistenza, accoglierà con gioia lo spuntare dei primi capelli bianchi e potrà godere di un’esistenza felice accanto all’uomo di cui si è innamorata e che ha infine sposato. In definitiva avrà finalmente cominciato a vivere, se vita è anche – dobbiamo imparare ad accettarlo – un ineluttabile cammino verso la vecchiaia e verso la morte.

Note

(1) O.Weininger, Sesso e carattere, Edizioni Studio Tesi, Pordenone, 1992

(2) Accanto a palesi evidenze di iperfemminilizzazione e ipermascolinizzazione assistiamo ovviamente a tendenze opposte: ragazze che giocano a fare i maschi, dando a volte vita a fenomeni di bullismo, e ragazzi che rifiutano quello che (ancora per poco?) appare come modello di mascolinità dominante, in una realtà, quella dei giovani, che appare estremamente fluida e ricca di contraddizioni.

(3) M. Simoncini, Il disagio dei padri separati, in Maschi discriminati, a cura di M.G. Turri, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2015, p. 51

(4) P. Bourdieu, Il dominio maschile, Feltrinelli, Milano, 1998

(5) M. Recalcati, Il complesso di Telemaco, Feltrinelli, Milano, 2013

(6) G. Zagrebelsky, Senza adulti, Einaudi, Torino, 2016, pp. 46-47

(7) L. Zanardo, Il corpo delle donne, Feltrinelli, Milano, 2011, p. 83